"Sangue sporco". Denuncia delle vittime dello Stato.

 

 

"Tremendamente vero."

Nessuno sceglie di ammalarsi. Nessuno dovrebbe ammalarsi in questo modo. Nessuno dovrebbe negare certi diritti. Nessuno dovrebbe morire per queste ragioni. Nessuno dovrebbe beffarsi cosi della vita. Nessuno dovrebbe avere questo potere. Nessuno dovrebbe lottare contro ciò.

Nessuno.

Eppure questo "Nessuno" è tantissima, troppa gente.






"Un viaggio da nord a sud dell'Italia. Un itinerario tra persone malate, infettate per trasfusioni di sangue o PER ERRORI commessi negli ospedali. [...] Sono migliaia le persone contagiate dall'epatite C e dal virus Hiv, danneggiate prima e beffate poi." "Cartelle cliniche nelle quali non compaiono trasfusioni o dove, miracolosamente, si scopre che una sacca di sangue non era sicura. Si racconta della depressione di chi si è trovato, da oggi a domani, a combattere con malattie che sconvolgono l'esistenza".

 

Franca, Antonia, Bruno, Maria, Cinzia, Rita, Vittoria, Mario, Paolo, Angelo, Mauro, Sara, solo alcuni dei nomi delle persone citate all'interno del libro "Sangue sporco" di Giovanni Del Giaccio. Libro contenente piccoli ed enormi pezzi di vita. 

Scorrendo le pagine, risaltano al cuore più che alla vista le parole "non ce l'ha fatta", "è morta", "morto senza giustizia", "la trasfusione le ha rovinato la vita", "trasfusione sbagliata, muore".

Morti o malattie dovute a trasfusioni di sangue infetto o ferri chirurgici non adeguatamente disinfettati, responsabili della trasmissione dell'epatite C e del virus Hiv.

Persone che perdono la vita, persone costrette a vivere in un modo che non gli spetta, in contrasto con persone incapaci di assumersi la responsabilità dei propri errori.

Il conflitto tra malattia e stato.

Il conflitto tra ragione e colpevolezza.


Credo fermamente nell'importanza di raccontare storie di vita di chi l'affronta in maniera differente dalla "normale" monotonia delle persone che, per fortuna, non si trovano ad affrontare reali difficoltà.

Ci credo (come lo testimoniano gli altri articoli scritti) perché è un modo, se pur assolutamente riduttivo, per rendere più importante la vita, la lotta per la vita, la voglia di vivere delle persone in questione. Inutile dire pertanto che credo in questo libro "Sangue Sporco", anche se questo mio crederci porta inevitabilmente a togliere parte di fiducia nel lavoro dello Stato, nel lavoro di chi certi diritti dovrebbe garantirli e non privarne.

Sdegno e rabbia sono infatti gli stati d'animo che più mi hanno accompagnata nel viaggio di questa lettura. Ma ad un livello interpretativo meno superficiale del mio Io (inteso in termini psicoanalitici) osservo come siano tali situazioni a fornirmi la spinta, la voglia, la determinazione ad impegnarmi nel lavoro del sociale. Ne deduco, pertanto, o meglio lo spero che per ogni azione sbagliata, per ogni errore, ci sia dall'altra parte una giusta bontà, un ragionevole lavoro solidaristico. Certo non basterà questo a rendere giustizia e di giustizia non ce ne sarà mai per chi è stato privato di parte di se, o almeno mai abbastanza.

Dico questo perché insomma, quando si parla di destino, di fato, di coincidenze indipendenti dall'azione umana è un conto. Forse sarebbe meno difficile accettare le conseguenze di una non facile malattia? Ma quando "Il valore della vita oggi è sottomesso anche ai capricci individuali di chi a vario titolo viene investito di arbitrio sulla vita e sulla morte: medici, giudici, pubblici ministeri" come si può reagire? Possono esistere tali situazioni? Evidentemente si, la domanda infatti è: Come possono esistere?

Il quadro già drammaticamente sconfortante è aggravato da: risarcimenti negati, cartelle cliniche nelle quali non compaiono trasfusioni, documentazioni scomparse, commissioni mediche con sentenze più che inopportune e come cita Adriano Chiarelli: oltre al danno anche la beffa! Lampante, pertanto, risulta l'assordante divario tra istituzioni e cittadini.

E dire che a volte basterebbe solo un briciolo di UMANITÀ in più. 

La mia stima è volta completamente a chi la voglia di vivere non l'ha perduta, 

la mia più grande solidarietà è volta invece a chi questa voglia l'ha perduta,

il mio cuore è volto a chi ha lasciato questo mondo,

il mio pensiero è volto a tutti.

TUTTI, tutti gli eroi coraggiosi che si battono e lottano con la vita, per la vita.

 

 

Questa breve e purtroppo "banale" riflessione (perchè non mi sono stati, fortunatamente, dati strumenti per comprendere realmente ciò che si prova in questi casi, se non la lettura e l'ascolto) è in qualche modo dedicata alla cara amica di famiglia Rita C. (pag. 174 del libro) e con questo il mio più grande in bocca al lupo!



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Il cupo etichettamento .

Come dei prodotti esposti al supermercato divisi per categoria, ci siamo imposti anche noi esseri umani le nostre etichette. Ci siamo auto creati delle categorie di appartenenza affibbiando a queste un dato valore o forse, meglio, prezzo. 

Proprio come al supermercato.
Neri, marocchini, zingari, handicappati, rumeni, ricchi, poveri, mussulmani, detenuti, tossicodipendenti, alcoolisti, comunisti e ancora e ancora.
Per "semplificarci" la vita abbiamo deciso di utilizzare queste sorta di etichette per attribuite ad una persona un insieme di caratteristiche che risiedono all'interno del significato stesso della parola. 
Ma è forse mai giusto utilizzare tali etichette per riferire fatti ed informazioni non inerenti al significato della parola? Spiegando meglio, è opportuno e sensato riferire notizie su un dato avvenimento etichettando una persona ad una propria caratteristica personale che nulla ha a che vedere con il fatto in se?
Si legge:
"Marocchino sorpreso a rubare"
"Nero picchiato"
"Disabile ucciso dal padre"
Le categorie influenzano le notizie e le notizie perdono la loro essenza principale.
Le categorie echeggiano la forma di pensiero antica dello stigma. 
Lo stereotipo.
Stereotipi che influenzano le persone sul proprio modo di pensare ed inevitabilmente di agire, di comportarsi. 
Che senso hanno le categorie se non riusciamo più a distinguere le azioni positive da quelle negative? Se facciamo, come si dice, di tutta l'erba un fascio?
E' un'assurda insensatezza alla luce del nuovo millennio definirci per categorie, per di più utilizzate dall'ignoranza delle persone che probabilmente pensa di sentirsi migliore per l'appartenenza o meno ad una di queste. 
Troppe volte, troppe persone si dimenticano che TUTTI siamo prima di tutto UOMINI.
TUTTI.









Bolle di sapone, "Globalizzazione dell'indifferenza".

LA CULTURA DEL BENESSERE, CHE CI PORTA A PENSARE A NOI STESSI, CI RENDE INSENSIBILI ALLE GRIDA DEGLI ALTRI, CI FA VIVERE IN BOLLE DI SAPONE, CHE SONO BELLE, MA NON SONO NULLA, SONO L'ILLUSIONE DEL FUTILE, DEL PROVVISORIO, CHE PORTA ALL'INDIFFERENZA VERSO GLI ALTRI, ANZI PORTA ALLA GLOBALIZZAZIONE DELL'INDIFFERENZA. IN QUESTO MONDO DELLA GLOBALIZZAZIONE DELL'INDIFFERENZA CI SIAMO ABITUATI ALLA SOFFERENZA DELL'ALTRO, NON CI RIGUARDA, NON CI INTERESSA, NON E' AFFARE NOSTRO.

In un luogo in cui tutto è sviluppato, in cui il progresso è all'ordine del giorno, regrediscono i sentimenti su cui, invece, tutto dovrebbe essere basato. Sembra questo il senso delle parole appena lette, scritte come un grido di speranza volto al concetto di solidarietà, che dovrebbe essere probabilmente scontata, innata forse, ma che ogni giorno diviene sempre più un concetto astratto. Veniamo definiti come "belle bolle di sapone" perché all'interno delle bolle niente può penetrare senza che queste scoppino, così come una persona curata di se stessa trascura il sociale circostante, ad eccezione del contesto egoistico fine se stesso. Queste bolle non ricordano però che "Ciascuno di noi esiste in quanto ESSERE IN RELAZIONE, è una consapevolezza, quella dell'intima connessione tra ciascuno di noi e gli altri, che va ricordata con lucidità".

Dobbiamo ricordarci dell'altro in quanto esistente come e insieme a noi, perchè è la reciproca esistenza che da senso alla relazione umana necessaria a fornire senso al contesto ambientale e temporale, ricordarci poi che l'altro prima di ogni altra cosa attende il semplice riconoscimento della propria esistenza.

Siamo ormai abituati ad investire il tempo in attività che beneficiano il nostro essere con un tornaconto personale e pertanto siamo sempre più propensi a dimenticare ed accantonare tutte quelle attività sociali e personali che ci definiscono Uomini, ma ancora prima: esseri viventi. Sono, invece, queste attività che costituiscono la massima fonte di dare/avere/ricevere. Tutto ciò che è invisibile agli occhi spesso ripaga più del materiale.

Abbiamo bisogno di una visione più utopistica del Mondo circostante, che utopia poi non è ma piuttosto una revisione della coscienza di ognuno. Credere in qualcosa, credere nelle persone e nel tessuto sociale che ci rende tali non dovrebbe mai andare fuori di moda. Impegniamoci ad essere meno indifferenti, perchè nessuno merita "il nulla", nemmeno TU!



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Storia di un uomo straordinario

    "Te l'ho mai detto che ho tre figli? Oggi vado a comprare il regalo di compleanno per il più piccolo" "No Pietro, non lo sapevo, ma è una cosa bellissima! Ma non li ho mai visti qui" " Si lo so non vengono quasi mai"


Questa è la storia di un uomo straordinario, si percepisce così l'essenza del suo essere: meravigliosa straordinarietà. Questo uomo è Pietro.
Pietro ha avuto una spensierata giovinezza, qualcosa di normale, niente di straordinario probabilmente, ma neppure niente di particolarmente negativo, ma quando le cose si fanno drammaticamente brutte allora forse anche la passata normalità diviene un ricordo di qualcosa di sorprendente e meraviglioso.
La famiglia che Pietro aveva costruito insieme alla propria compagna di vita si è fatta testimone di una stravolgente esperienza che tramuta in una semi paralisi, sedia a rotelle, difficoltà evidenti nell'utilizzo della parola, anni di riabilitazione. Un ictus devastante in termini fisici, psicologici, familiari.
La qualità di vita è mutata, nuove situazioni da affrontare e gestire. Una casa con certe barriere architettoniche con una sedia a rotelle non è facile da affrontare. E le barriere psicosociali sono ancora peggio.


È strano, e probabilmente drammaticamente brutto, veder mutare inesorabilmente la percezione del proprio essere da uomo e padre di famiglia a uomo bisognoso di cure e attenzioni costantemente. È difficile elaborare questo mutamento ed elaborare il lutto della perdita di due arti e l'utilizzo della parola.
Certe situazioni ed esperienze spengono il motore della vita insita in ognuno di noi, non ho modo di sapere se per un breve o comunque limitato periodo anche Pietro è stato invaso da questi sentimenti perché fortunatamente ho avuto modo di conoscerlo pieno di vita, uomo straordinario, immerso nelle sue attività e nel cuore delle persone che lo circondano.
Pietro aveva una passione: suonare la chitarra e cantare. 
Ciò non gli è più possibile. 
Pietro impara a suonare l'armonica con la parte destra della bocca. Le sue labbra si appoggiano ed esce un suono melodico trasportatore di emozioni percettibili al cuore più che all'udito.
Pietro ha un cuore grande. Ascolta i problemi di chi sta meglio di lui.
Pietro è capace ed è stato capace di far fronte a tale situazione, ma la sua famiglia purtroppo no. Dopo dodici mesi la moglie si accorge di non riuscire e non avere i mezzi materiali ed affettivi per supportare il marito in questa situazione di bisogno e opta per affidarlo alle cure di un Centro Riabilitativo per disabilità. 
Questa diventerà la nuova casa di Pietro. La sua nuova famiglia.
Sa affrontare tutto con assoluta umiltà.
Le emozioni che mi ha trasmesso non sono sufficientemente spiegabili con le parole o almeno non mi è dato di conoscere parole così straordinarie. Emozioni così profonde che ad oggi ricordo Pietro ancora così intensamente. 
Le persone sono speciali. A volte veramente veramente tanto,
Pietro è speciale.
Quindi Pietro grazie per insegnare a chi ti è a fianco giorno dopo giorno a reagire agli stimoli che la vita offre, anche i piu negativi. Grazie per offrire un spunto di umanità, sensibilità e forza allo stesso tempo.
Si impara molto da chi ha qualcosa apparentemente in meno, perché solo la visione superficiale delle cose che ci circondano non permettono alle persone di aprire la propria mente e il proprio cuore ai fili invisibili della solidarietà che lega il tessuto sociale cui tutti apparteniamo.

Considerazioni al termine di un'esperienza di stage..

Cito queste righe scritte da una ragazza che terminata la sua esperienza di tirocinio in un Centro di riabilitazione per disabilità acquisite, della durata di quattro settimane, ha voluto riassumere e riflettere sull'importanza di tale esperienza.

Un ringraziamento speciale va fatto alla scuola che ha permesso di svolgere questo periodo di stage #DeleddaServiziSociali e la struttura ospitante locata sul territorio Modenese.

 

"Quest’esperienza di stage mi ha offerto la possibilità di scoprire un nuovo mondo:

quello delle disabilità. Aver studiato in diverse materie argomenti pertinenti, come:

le leggi sull’integrazione del disabile nel mondo scolastico e del lavoro, le diverse

classificazioni di disabilità (ICIDH e ICF) piuttosto che le diverse tipologie di

disabilità o le cause di esse, nutrivano in me la presunzione di sapere cosa fosse

realmente la disabilità.

Ma ora penso che gli studi effettuati durante questo percorso scolastico siano solo

un piccolo strumento per poter comprendere ciò che realmente si vive in un centro

per disabilità.

Studiando i vari tipi di disabilità esistenti è quasi scontato centrarsi sul tipo di un

problema che un soggetto ha piuttosto che sulla persona in sé.

Invece, al Centro P. non si parla di “problema” o di “malattia” , non si parla di

“disabilità” e neanche di “disagio”.

Si parla di Persona.

Persone che sicuramente hanno subito un cambiamento della propria vita e che

devono trovare ed adottare nuove strategie per raggiungere determinati obiettivi, il

cui precedente raggiungimento era scontato. Tale Centro si propone di fornire tutti

gli strumenti necessari per mantenere uno stile di vita il più possibile simile a quello

precedente.

Ma in che modo le figure professionali operano verso tale obiettivo?

Al Centro P. non esiste distacco tra utenti e figure professionali: queste non

danno del “lei” agli utenti ed utilizzano nomi e nomignoli (lo stesso viene fatto da

parte degli utenti nei confronti degli operatori) , inoltre gli operatori non indossano

camici o divise per evidenziare il proprio ruolo ma vestiti comuni.

“E ricorda che non sono gli utenti ad essere ospiti, siamo noi ospiti in casa loro” mi è

stato detto durante uno dei miei primi giorni di stage.

Questo pensiero mi ha immediatamente fatto capire il tipo di approccio utilizzato

dalle diverse figure professionali nei confronti degli utenti.

Infatti l’ottica proposta dal Centro è la seguente: non sono gli utenti a recarsi al

Centro in cerca di aiuto, ma sono gli operatori stessi a recarsi al Centro per fornire

aiuto. Nonostante sia una sottile differenza è sufficiente per rendere più accogliente

e familiare la struttura.

Quasi scontato affermare che quest’esperienza di stage ha arricchito le mie

conoscenze e soprattutto la mia sfera affettiva. Mai avrei pensato di provare così

tante forti emozioni semplicemente osservando il loro modo di essere. Tanti sono i

rapporti che ho stretto sia con le figure professionali sia con gli utenti.

Ognuno di loro è in grado di insegnarci qualcosa, ognuno di loro, nonostante tutto,

ha ancora più bisogno di dare che di ricevere.

E’ incredibile quanta forza fisica e soprattutto d’animo abbia investito tutti loro.

Per tutti intendo P. affetto da disabilità dovuta ad un ictus avuto all’età di 42

anni. Sposato e tre figli. Abbandonato dalla moglie incapace di stargli vicino in tale

situazione. Pietro vive per i suoi figli e la musica. Suonava il pianoforte e la chitarra,

l’ictus che ha completamente paralizzato l’intera metà del suo corpo gli impedisce

di poter continuare a suonare questi due strumenti. Ora è un bravissimo suonatore

di armonica.

Intendo A. che nella sua camera ha sempre in vista una copertina di una vecchia

rivista che ritrae una modella magrissima in costume. A. a 25 anni voleva

diventare come lei: la dieta intrapresa le recava spesso forti giramenti di testa e

debolezza, in macchina ebbe uno di questi momenti e fece un incidente. Un

incidente che determinerà tutta la sua vita a venire. A. non possiede più tutti i

collegamenti cerebrali integri e nonostante sia autonoma e autosufficiente mostra

tale carenza in tutti, o quasi, i discorsi, spesso privi di senso logico. “Quanti anni mi

dai? Quanti anni mi dai? Quanti anni mi dai?” domanda costantemente ad ogni

persona a lei vicino circa una ventina di volte ininterrottamente, quasi volesse

recuperare il tempo perduto a causa dell’incidente.

Per tutti intendo W. affetto da disabilità dovuta da ictus che gli ha

completamente tolto la capacità comunicativa. W. nonostante tutto non si

dispera ed è molto fiducioso nei confronti del futuro: ogni mattina e ogni

pomeriggio si reca con la sua carrozzina di fronte ad una grandissima vetrata vicina

alla sua stanza e osserva, o meglio aspetta. Aspetta la donna della sua vita che è

sicuro un giorno arriverà a portarlo via dal Centro.

Intendo L. che possiede entrambi gli arti inferiori paralizzati. L. lascia

trapelare poco di sé, si è costruita una corazza per reagire alla propria situazione che

ancora non ha superato del tutto.

Intendo F. anch'essa affetta da disabilità dovuta ad ictus. F. non riesce più

ad esprimersi e a formulare discorsi. Ancora si innervosisce ogni qualvolta le è 32

difficile esprimersi e farsi capire, ma non si perde d’animo e trova sempre il modo

per farsi comprendere.

Per tutti intendo L. la persona più dolce e accomodante che ho incontrato

durante il mio periodo di stage. L. è affetta dal Morbo di Parkinson, che inibisce

gran parte dei suoi movimenti e delle attività che precedentemente svolgeva.

Nonostante questo L. ha trovato una strategia per poter seguire ogni tipo

d’interesse che prima aveva, come il decoupage, cantare, scrivere canzoni.

Intendo S. che a seguito di un incidente stradale la sua mentalità si è fermata

all’età di 16 anni (età in cui è avvenuto l’incidente). Infatti ora all’età di 34 anni i suoi

unici interessi sono i videogiochi e i fumetti.

Per tutti intendo C. la più carismatica del gruppo: sempre una battuta pronta

e sempre il sorriso sulle labbra. C. è cosi solare e piena di vita che non sembra

neanche essere affetta da disabilità, se non fosse per la sedia a rotelle di cui

necessità costantemente a causa di una paralisi dovuta ad ictus.

Intendo, inoltre, tutte le figure professionali che hanno fatto sentire anche me e la

mia compagna di classe e di stage Elisa parte di un gruppo e parte di una grande

famiglia.

La mia esperienza è stata talmente soddisfacente che ho mantenuto i rapporti con

alcuni degli utenti, mandandogli mail, facendogli visita e scambiandoci i numeri di

telefono.

Non posso che essere grata dell’opportunità che mi è stata data."

 

#ilbenedelsociale

 

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