Il cupo etichettamento .

Come dei prodotti esposti al supermercato divisi per categoria, ci siamo imposti anche noi esseri umani le nostre etichette. Ci siamo auto creati delle categorie di appartenenza affibbiando a queste un dato valore o forse, meglio, prezzo. 

Proprio come al supermercato.
Neri, marocchini, zingari, handicappati, rumeni, ricchi, poveri, mussulmani, detenuti, tossicodipendenti, alcoolisti, comunisti e ancora e ancora.
Per "semplificarci" la vita abbiamo deciso di utilizzare queste sorta di etichette per attribuite ad una persona un insieme di caratteristiche che risiedono all'interno del significato stesso della parola. 
Ma è forse mai giusto utilizzare tali etichette per riferire fatti ed informazioni non inerenti al significato della parola? Spiegando meglio, è opportuno e sensato riferire notizie su un dato avvenimento etichettando una persona ad una propria caratteristica personale che nulla ha a che vedere con il fatto in se?
Si legge:
"Marocchino sorpreso a rubare"
"Nero picchiato"
"Disabile ucciso dal padre"
Le categorie influenzano le notizie e le notizie perdono la loro essenza principale.
Le categorie echeggiano la forma di pensiero antica dello stigma. 
Lo stereotipo.
Stereotipi che influenzano le persone sul proprio modo di pensare ed inevitabilmente di agire, di comportarsi. 
Che senso hanno le categorie se non riusciamo più a distinguere le azioni positive da quelle negative? Se facciamo, come si dice, di tutta l'erba un fascio?
E' un'assurda insensatezza alla luce del nuovo millennio definirci per categorie, per di più utilizzate dall'ignoranza delle persone che probabilmente pensa di sentirsi migliore per l'appartenenza o meno ad una di queste. 
Troppe volte, troppe persone si dimenticano che TUTTI siamo prima di tutto UOMINI.
TUTTI.









Bolle di sapone, "Globalizzazione dell'indifferenza".

LA CULTURA DEL BENESSERE, CHE CI PORTA A PENSARE A NOI STESSI, CI RENDE INSENSIBILI ALLE GRIDA DEGLI ALTRI, CI FA VIVERE IN BOLLE DI SAPONE, CHE SONO BELLE, MA NON SONO NULLA, SONO L'ILLUSIONE DEL FUTILE, DEL PROVVISORIO, CHE PORTA ALL'INDIFFERENZA VERSO GLI ALTRI, ANZI PORTA ALLA GLOBALIZZAZIONE DELL'INDIFFERENZA. IN QUESTO MONDO DELLA GLOBALIZZAZIONE DELL'INDIFFERENZA CI SIAMO ABITUATI ALLA SOFFERENZA DELL'ALTRO, NON CI RIGUARDA, NON CI INTERESSA, NON E' AFFARE NOSTRO.

In un luogo in cui tutto è sviluppato, in cui il progresso è all'ordine del giorno, regrediscono i sentimenti su cui, invece, tutto dovrebbe essere basato. Sembra questo il senso delle parole appena lette, scritte come un grido di speranza volto al concetto di solidarietà, che dovrebbe essere probabilmente scontata, innata forse, ma che ogni giorno diviene sempre più un concetto astratto. Veniamo definiti come "belle bolle di sapone" perché all'interno delle bolle niente può penetrare senza che queste scoppino, così come una persona curata di se stessa trascura il sociale circostante, ad eccezione del contesto egoistico fine se stesso. Queste bolle non ricordano però che "Ciascuno di noi esiste in quanto ESSERE IN RELAZIONE, è una consapevolezza, quella dell'intima connessione tra ciascuno di noi e gli altri, che va ricordata con lucidità".

Dobbiamo ricordarci dell'altro in quanto esistente come e insieme a noi, perchè è la reciproca esistenza che da senso alla relazione umana necessaria a fornire senso al contesto ambientale e temporale, ricordarci poi che l'altro prima di ogni altra cosa attende il semplice riconoscimento della propria esistenza.

Siamo ormai abituati ad investire il tempo in attività che beneficiano il nostro essere con un tornaconto personale e pertanto siamo sempre più propensi a dimenticare ed accantonare tutte quelle attività sociali e personali che ci definiscono Uomini, ma ancora prima: esseri viventi. Sono, invece, queste attività che costituiscono la massima fonte di dare/avere/ricevere. Tutto ciò che è invisibile agli occhi spesso ripaga più del materiale.

Abbiamo bisogno di una visione più utopistica del Mondo circostante, che utopia poi non è ma piuttosto una revisione della coscienza di ognuno. Credere in qualcosa, credere nelle persone e nel tessuto sociale che ci rende tali non dovrebbe mai andare fuori di moda. Impegniamoci ad essere meno indifferenti, perchè nessuno merita "il nulla", nemmeno TU!



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Considerazioni al termine di un'esperienza di stage..

Cito queste righe scritte da una ragazza che terminata la sua esperienza di tirocinio in un Centro di riabilitazione per disabilità acquisite, della durata di quattro settimane, ha voluto riassumere e riflettere sull'importanza di tale esperienza.

Un ringraziamento speciale va fatto alla scuola che ha permesso di svolgere questo periodo di stage #DeleddaServiziSociali e la struttura ospitante locata sul territorio Modenese.

 

"Quest’esperienza di stage mi ha offerto la possibilità di scoprire un nuovo mondo:

quello delle disabilità. Aver studiato in diverse materie argomenti pertinenti, come:

le leggi sull’integrazione del disabile nel mondo scolastico e del lavoro, le diverse

classificazioni di disabilità (ICIDH e ICF) piuttosto che le diverse tipologie di

disabilità o le cause di esse, nutrivano in me la presunzione di sapere cosa fosse

realmente la disabilità.

Ma ora penso che gli studi effettuati durante questo percorso scolastico siano solo

un piccolo strumento per poter comprendere ciò che realmente si vive in un centro

per disabilità.

Studiando i vari tipi di disabilità esistenti è quasi scontato centrarsi sul tipo di un

problema che un soggetto ha piuttosto che sulla persona in sé.

Invece, al Centro P. non si parla di “problema” o di “malattia” , non si parla di

“disabilità” e neanche di “disagio”.

Si parla di Persona.

Persone che sicuramente hanno subito un cambiamento della propria vita e che

devono trovare ed adottare nuove strategie per raggiungere determinati obiettivi, il

cui precedente raggiungimento era scontato. Tale Centro si propone di fornire tutti

gli strumenti necessari per mantenere uno stile di vita il più possibile simile a quello

precedente.

Ma in che modo le figure professionali operano verso tale obiettivo?

Al Centro P. non esiste distacco tra utenti e figure professionali: queste non

danno del “lei” agli utenti ed utilizzano nomi e nomignoli (lo stesso viene fatto da

parte degli utenti nei confronti degli operatori) , inoltre gli operatori non indossano

camici o divise per evidenziare il proprio ruolo ma vestiti comuni.

“E ricorda che non sono gli utenti ad essere ospiti, siamo noi ospiti in casa loro” mi è

stato detto durante uno dei miei primi giorni di stage.

Questo pensiero mi ha immediatamente fatto capire il tipo di approccio utilizzato

dalle diverse figure professionali nei confronti degli utenti.

Infatti l’ottica proposta dal Centro è la seguente: non sono gli utenti a recarsi al

Centro in cerca di aiuto, ma sono gli operatori stessi a recarsi al Centro per fornire

aiuto. Nonostante sia una sottile differenza è sufficiente per rendere più accogliente

e familiare la struttura.

Quasi scontato affermare che quest’esperienza di stage ha arricchito le mie

conoscenze e soprattutto la mia sfera affettiva. Mai avrei pensato di provare così

tante forti emozioni semplicemente osservando il loro modo di essere. Tanti sono i

rapporti che ho stretto sia con le figure professionali sia con gli utenti.

Ognuno di loro è in grado di insegnarci qualcosa, ognuno di loro, nonostante tutto,

ha ancora più bisogno di dare che di ricevere.

E’ incredibile quanta forza fisica e soprattutto d’animo abbia investito tutti loro.

Per tutti intendo P. affetto da disabilità dovuta ad un ictus avuto all’età di 42

anni. Sposato e tre figli. Abbandonato dalla moglie incapace di stargli vicino in tale

situazione. Pietro vive per i suoi figli e la musica. Suonava il pianoforte e la chitarra,

l’ictus che ha completamente paralizzato l’intera metà del suo corpo gli impedisce

di poter continuare a suonare questi due strumenti. Ora è un bravissimo suonatore

di armonica.

Intendo A. che nella sua camera ha sempre in vista una copertina di una vecchia

rivista che ritrae una modella magrissima in costume. A. a 25 anni voleva

diventare come lei: la dieta intrapresa le recava spesso forti giramenti di testa e

debolezza, in macchina ebbe uno di questi momenti e fece un incidente. Un

incidente che determinerà tutta la sua vita a venire. A. non possiede più tutti i

collegamenti cerebrali integri e nonostante sia autonoma e autosufficiente mostra

tale carenza in tutti, o quasi, i discorsi, spesso privi di senso logico. “Quanti anni mi

dai? Quanti anni mi dai? Quanti anni mi dai?” domanda costantemente ad ogni

persona a lei vicino circa una ventina di volte ininterrottamente, quasi volesse

recuperare il tempo perduto a causa dell’incidente.

Per tutti intendo W. affetto da disabilità dovuta da ictus che gli ha

completamente tolto la capacità comunicativa. W. nonostante tutto non si

dispera ed è molto fiducioso nei confronti del futuro: ogni mattina e ogni

pomeriggio si reca con la sua carrozzina di fronte ad una grandissima vetrata vicina

alla sua stanza e osserva, o meglio aspetta. Aspetta la donna della sua vita che è

sicuro un giorno arriverà a portarlo via dal Centro.

Intendo L. che possiede entrambi gli arti inferiori paralizzati. L. lascia

trapelare poco di sé, si è costruita una corazza per reagire alla propria situazione che

ancora non ha superato del tutto.

Intendo F. anch'essa affetta da disabilità dovuta ad ictus. F. non riesce più

ad esprimersi e a formulare discorsi. Ancora si innervosisce ogni qualvolta le è 32

difficile esprimersi e farsi capire, ma non si perde d’animo e trova sempre il modo

per farsi comprendere.

Per tutti intendo L. la persona più dolce e accomodante che ho incontrato

durante il mio periodo di stage. L. è affetta dal Morbo di Parkinson, che inibisce

gran parte dei suoi movimenti e delle attività che precedentemente svolgeva.

Nonostante questo L. ha trovato una strategia per poter seguire ogni tipo

d’interesse che prima aveva, come il decoupage, cantare, scrivere canzoni.

Intendo S. che a seguito di un incidente stradale la sua mentalità si è fermata

all’età di 16 anni (età in cui è avvenuto l’incidente). Infatti ora all’età di 34 anni i suoi

unici interessi sono i videogiochi e i fumetti.

Per tutti intendo C. la più carismatica del gruppo: sempre una battuta pronta

e sempre il sorriso sulle labbra. C. è cosi solare e piena di vita che non sembra

neanche essere affetta da disabilità, se non fosse per la sedia a rotelle di cui

necessità costantemente a causa di una paralisi dovuta ad ictus.

Intendo, inoltre, tutte le figure professionali che hanno fatto sentire anche me e la

mia compagna di classe e di stage Elisa parte di un gruppo e parte di una grande

famiglia.

La mia esperienza è stata talmente soddisfacente che ho mantenuto i rapporti con

alcuni degli utenti, mandandogli mail, facendogli visita e scambiandoci i numeri di

telefono.

Non posso che essere grata dell’opportunità che mi è stata data."

 

#ilbenedelsociale

 

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L'amore non invecchia.

Scelgo di raccontare questa esperienza per prima per le forti emozioni provate giorno dopo giorno. Nonostante i giorni passassero uguali e monotoni come così accade nella maggior parte delle strutture per anziani.

In questi luoghi il tempo sembra essere scandito dalle attività e ad azioni che si ripetono ogni giorno alla medesima ora, quasi come se il raggiungimento di un'attività sia un traguardo, quasi come a dire "E anche oggi sono arrivato a cena!".

In questi saloni, in queste stanze si respira allegria misto nostalgia.

Gli ospiti di queste strutture raccontano esperienze passate e chi sa ascoltare empaticamente non fatica a comprendere quanta necessità interiore ci sia di far riaffiorare tali ricordi, come se parlarne fosse sufficiente a riviverli.

Poi c'è anche chi non parla e chi preferisce dimenticare ciò che non può più essere. Poi c'è chi forse vorrebbe parlare ma l'unica cosa che può fare è roteare le pupille. 

Questa persona è Giorgio. E' un uomo di 79 anni. E' sposato con una donna della sua stessa età. E' in questa struttura da quando è rimasto interamente paralizzato. Sono ormai 16 anni.

Sono 16 anni che non vede la sua casa ma sono ugualmente sedici anni di amore e di famiglia. La moglie  si reca nella camera di Giorgio all'interno della struttura ogni giorno, ogni mattina, ogni pomeriggio. Lo guarda e lo accarezza ogni volta con amore e senza compassione del suo corpo rigido e immobile.

Gli parla nonostante siano 16 anni che non ode alcuna risposta: Giorgio non può più parlare. Giorgio non può abbracciarla, non può dirle grazie, non può darle un tenero bacio, una carezza, non può donarle nemmeno un accenno di un sorriso. 

Eppure osservandoli mi accorgo che nonostante Giorgio possa offrire poco è comunque un dare e avere reciproco. E' qualcosa di piccolo e sottile ma percettibile al cuore. 

E' la costanza e l'amore di una promessa fatta in passato.

La presenza a volte basta per scaldare il cuore di chi pur non potendo fare niente ha probabilmente tutto.

 

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